mercoledì 9 aprile 2008

Ansia

“Che ansia!”

Ma quando paliamo di “ansia” a cosa ci riferiamo esattamente? Il nostro parlare comune è ricco di espressioni e sinonimi che descrivono il modo in cui ci si può sentire: preoccupato, agitato, in apprensione, nervoso, inquieto, schiacciato, angosciato, spaventato, terrorizzato, in allarme, oppresso… impanicato!

Non do mai per scontato di sapere cosa prova l’altro quando mi dice “sto in ansia” in quanto le connotazioni sono svariate e, soprattutto, voglio comprendere se è un modo di dire, se c’è uno stato d’ansia “normale”, se mi trovo davanti ad una condizione di sofferenza psicofisica. Già, perché l’ansia la sperimentiamo a più livelli: coinvolge l’emotività, attiva il piano sensorio-corporeo, comprende una serie di immagini, pensieri e di dialoghi interni.

Comunemente la identifichiamo come un vissuto simile alla paura. Si tratta di una condizione psicologica caratterizzata da preoccupazione, inquietudine ed agitazione senza un motivo apparente. Sensazioni di essere “chiusi”, “pressati”, “messi alle strette”, “spinti in un angolo” da fatti, persone, circostanze, forze di cui non si ha una percezione chiara e precisa… queste le suggestioni che ritornano più frequentemente. L’etimologia stessa del termine ci indica una buona comprensione dell’ansia: dal latino significa “sentirsi preoccupati rispetto ad un evento incerto” mentre il rimando originaria dal greco corrisponde a “strangolare” o “spingere forte”.

Osservare una persona che prova ansia significa guardare lo stato tensionale che sta sperimentando. Vi è sempre un substrato di tensione che è connesso ad uno stimolo ansiogeno, che sia interno o esterno alla persona, vale a dire un accadimento imprevisto e spiacevole o una aspettativa negativa. Va precisato, tuttavia, che la tensione psicofisica in se stessa non è un problema perché può essere percepita anche positivamente. Molte persone, infatti, sono attivi nella ricerca di situazioni di tensione in quanto ne traggono piacere. Ansia e tensione vanno viste, capite e valutate caso per caso. Basti pensare al “brivido” che si prova nelle situazioni rischiose e tendenzialmente pericolose, condizione tensionale al limite tra la piacevolezza e la sgradevolezza. Vi sono persone che sono attratte dalle cosiddette “attività adrenaliniche”, in cui è predominante l’eccitazione, talvolta anche a tratti euforici! Esse traggono piacere dal fatto di sentirsi in grado di padroneggiare le proprie emozioni e capaci di “avere il controllo” della situazione.

L’ansia non è una esperienza intrinsecamente negativa. Naturalmente assolve ad una funzione protettiva quando favorisce risposte di adattamento della persona.

Quando, invece, è molto intensa diventa paralizzante, danneggia la condotta alterando la capacità di finalizzare le proprie azioni, stravolge lo stato di benessere e l’equilibrio personale. Questo meccanismo è particolarmente evidente nella cosiddetta “ansia da prestazione”, comunemente sperimentata prima di un esame o di un colloquio di selezione: nota drammaticamente a chi, tra le lenzuola, ha una difficoltà sessuale, nell’intimità di una relazione affettiva stabile o in un’avventura occasionale. Tuttavia, quando l’ansia è moderata sortisce un effetto contrario rispetto a quelli appena citati: ha la funzione di allertarci, spronarci e farci attivare in modo lucido nella condotta. Così le prestazioni ne risultano migliorate in quanto manteniamo uno stato permanente di attenzione, siamo presenti nella mente e puntuali nel comportamento. Un discreto stato tensionale, che non superi la soglia soggettiva di contenimento dell’ansia, definisce i limiti soggettivi della funzionalità/disfunzionalità dei propri stati di tensione ansiosa. Per comprendere come siamo fatti da questo punto di vista è importante osservare e conoscere gli stati fisiologici, il sistema di immagini e le reazioni comportamentali si producono in noi quando avvertiamo ansia.


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