sabato 19 aprile 2008

Soddisfazione professionale

Si vive per lavorare o si lavora per vivere?

Una questione mica da poco? Intanto è la domanda che, con crescente frequenza, mi pongono figli, partner, amici e genitori, riferendo la preoccupazione - e spesso la disapprovazione! - circa lo stile con cui si affronta il lavoro oggigiorno. E intanto i fatti descrivono l’aumento di relazioni di coppia trascurate, figli affidati alle cure di baby sitter o “nonni a tempo pieno”, rapporti interpersonali sempre meno intimi, tesi invece a “creare/mantenere una rete di contatti”. Sembra questo lo scenario, sempre più diffuso, nel concorrenziale e sfidante mondo professionale.

Le considerazioni possibili sono tante e si orientano in diverse direzioni. Innanzi tutto va considerato che, negli ultimi decenni, si sono trasformate le leggi del mercato (implicazioni politiche e sociali) e hanno subito un incredibile stravolgimento i modi in cui si lavora (implicazioni scientifiche e tecnologiche). Senza entrare nel merito di questi aspetti, voglio sottolineare che ci sono ricadute estremamente significative nelle vita di tutti i giorni: si è modificata la cultura del lavoro!

Ne deriva che le persone più mature accusano il disagio di un mondo che “cambia troppo in fretta”: sentono di non capirlo e di non riuscire a stare dietro a tutte le innovazioni che comporta. Fanno difficoltà ad integrarsi e si sentono “tagliate fuori” in quanto non competitivi rispetto alla concorrenzialità rappresentata dai giovani. Questi, invece, “figli naturali” della “cultura madre”, non solo fanno parte del sistema, ma lo incarnano essi stessi: business, conquista di segmenti di mercato, strategie di retention, innovazione continua…

Si osserva come la cultura del mondo del lavoro viene talmente assorbita che entra nelle logiche di pensiero anche della vita privata!


E hai notato come, intanto, le differenze di genere sul piano lavorativo, anche le più tradizionali tra maschi e femmine, si sono incredibilmente assottigliate?


La questione è più preoccupante quando i confini tra vita professionale/vita affettiva si assottigliano e non si riconoscono differenze di atteggiamenti, vissuti, stili di pensiero e comportamenti proprie delle due dimensioni. La questione è ancora più preoccupante quando la “persona” diventa prevalentemente o esclusivamente “lavoratore”. La questione è patologica quando decade la capacità di autoregolazione, in modo consapevole ed intenzionale, rispetto ad una riorganizzazione della propria esistenza.


Ma come mai, secondo te, si sviluppa una dipendenza da lavoro?


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